Licenziamento: illegittimità nell’indennizzo delle “tutele crescenti”

Marco Strada DiMarco Strada
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Il contratto di lavoro “a tutele crescenti”, introdotto con il decreto legislativo n. 23 del 2015, aveva modificato radicalmente la concezione del “posto fisso” nell’ordinamento Italiano.

E’ noto che, salvi casi particolari (patto di prova, apprendistato), un datore di lavoro può licenziare i propri dipendenti solo per motivi oggettivi (calo degli incassi, riorganizzazione aziendale) o soggettivi (motivi disciplinari), dei quali deve fornire prova. In mancanza, il licenziamento illegittimo può essere impugnato dal lavoratore, con conseguenze che, a seconda dei casi, possono andare dalla reintegrazione del lavoratore sul luogo di lavoro al pagamento di un indennità.

Il contratto a tutele crescenti

Secondo le “tutele crescenti” (applicate solo alle assunzioni successive al 6/3/15), il licenziamento illegittimo porta al solo pagamento di un’indennità pari a due mensilità per ogni anno di rapporto, con un minimo di 4 (poi alzate a 6) e un massimo di 24 (poi alzate a 30) mensilità. Per i datori di lavoro che occupano fino a quindici dipendenti, tale indennità è dimezzata e non può essere superiore a sei mensilità.

La reintegrazione sul posto di lavoro rimane solo per casi di particolare gravità, limitati nella prassi (licenziamento discriminatorio o nullo, prova in giudizio della radicale inesistenza del fatto per il quale il datore procede a licenziamento disciplinare).

La riduzione dell’indennizzo a fronte di un licenziamento impugnato e giudicato illegittimo aveva uno scopo dichiarato: quello di favorire l’assunzione a tempo indeterminato, superando le “paure” del datore, soprattutto di piccole dimensioni, verso un rapporto troppo ingessato, nella prospettiva di una previsione “certa” dei costi di licenziamento.

Il legislatore, tuttavia, non è completamente libero di riformare la materia lavoristica, dovendosi muovere all’interno di principi costituzionali che tutelano sia il diritto al lavoro che i diritti fondamentali della persona sul posto di lavoro.

La valutazione della Corte Costituzionale

Nasce su queste basi la sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018 che dichiara l’incostituzionalità di un’indennità di licenziamento illegittimo rigidamente ancorata alla sola anzianità di rapporto.

Secondo la Corte, la previsione di un’indennità ragionevole non serve solo a tutelare il lavoratore alla cessazione del rapporto ma anche a garantirgli durante il rapporto quel minimo di forza contrattuale necessaria al rispetto dei propri diritti fondamentali: in mancanza, la prospettiva di un licenziamento senza regole o conseguenze porterebbe il lavoratore a rinunciare a ogni tutela pur di mantenere il proprio posto di lavoro. Inoltre, contrasta con il principio di uguaglianza trattare nello stesso modo (pari anzianità) casi diversi (maggiore o minore gravità del comportamento del datore, condizioni reddituali delle parti..).

La Corte cerca però di trovare un punto di equilibrio che non comprometta nemmeno le libertà del datore di lavoro (che, soprattutto se di piccole dimensioni, non sempre è la “parte forte” presupposta dalla normativa), anche per non vanificare l’obiettivo di incrementare le assunzioni a tempo indeterminato.

La sentenza n. 194 ritiene infatti validi sia l’impianto delle tutele crescenti che i limiti minimi e massimi previsti per l’indennità. L’importo da corrispondere al dipendente licenziato illegittimamente non verrà liberamente deciso dal giudice ma dovrà essere motivatamente quantificato, all’interno di tali confini, sia in base all’anzianità che secondo altri criteri già consolidati, quali il numero di dipendenti occupati, le dimensioni dell’attività economica, il comportamento e le condizioni delle parti.

È però evidente che, dopo la sentenza n. 194, peseranno sulle tutele crescenti un’ineliminabile incertezza sulla quantificazione dell’indennità, possibili oscillazioni giurisprudenziali o nuove dichiarazioni di illegittimità costituzionale dei limiti posti dalla riforma.

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