Recentemente, il concetto di welfare aziendale ha avuto ampia diffusione in mezzi d’informazione, interventi legislativi e aggiornamenti dei contratti collettivi.
Considerati i possibili vantaggi che le misure di welfare aziendale possono portare ai lavoratori e alle aziende, è opportuno riassumere, in breve, le coordinate della materia.
Spesso, il termine “welfare aziendale” viene utilizzato per indicare tutti gli strumenti attraverso cui il lavoratore riceve benefici dal datore diversi dalla normale retribuzione in denaro. L’utilizzo è però improprio.
Il “welfare State”, o Stato Sociale, richiama il concetto di uno Stato che cura i bisogni primari dei propri cittadini, attivando strumenti che consentano di tutelarne salute e benessere a prescindere dalle differenze sociali o economiche.
Il peso di questo modello sulla spesa pubblica ha portato a incentivare gli strumenti attraverso cui il datore eroga ai dipendenti servizi e benefici, affiancati al pagamento dello stipendio, “al posto” dello Stato.
Il welfare aziendale in senso proprio riguarda gli strumenti attraverso cui il datore fornisce direttamente ai dipendenti beni o servizi riguardanti i bisogni essenziali dei lavoratori.
L’incentivazione del welfare aziendale nella Legge (alla quale si affiancano le misure previste di volta in volta da bandi e contributi pubblici) riguarda essenzialmente l’annullamento della distanza tra netto e lordo: sulla parte di retribuzione corrisposta mediante servizi di “welfare” al posto del denaro non sono applicati contributi né imposte.
Il vantaggio fiscale-contributivo può essere utilizzato per diminuire il costo di premi e bonus corrisposti ai dipendenti ma è nella contrattazione che lo strumento raggiunge il suo vero valore aggiunto.
La richiesta di incrementi retributivi rispetto ai minimi salariali avviene normalmente per far fronte all’aumento del costo della vita, come corrispettivo per alcune richieste datoriali o quale premio per l’apporto ai risultati aziendali.
Questa pretesa può essere gestita garantendo ai lavoratori degli importi “spendibili” per necessità alle quali dovrebbero comunque fare fronte con il normale stipendio: i pagamenti effettuati come “welfare” risulteranno più ampi per il lavoratore e meno costosi per il datore, dal momento che entrambi risparmieranno le quote relative a contribuzione e tassazione.
In parte, gli stessi vantaggi si applicano anche agli strumenti di welfare “improprio”, dove il pagamento avviene attraverso beni e servizi ma manca la finalità sociale collegata al concetto di welfare.
Lo strumento più utilizzato in questo senso è la semplice erogazione da parte del datore di beni o servizi in aggiunta al normale corrispettivo (esempio tipico sono i cosiddetti “buoni benzina“).
Le regole di esenzione sono le stesse della disciplina dei “fringe benefits” (ad esempio la concessione in uso di auto aziendale): ogni dipendente può ricevere beni e servizi fino al valore di € 258,23 all’anno, sui quali non verranno calcolati contributi né imposte.
Qualora venisse superato tale limite, l’intera erogazione sarà soggetta alle stesse regole previdenziali e contributive previste per la normale retribuzione.
Per il datore, la spesa è interamente deducibile come correlata ai rapporti di lavoro.
Il limite di € 258,23 non è irrisorio se si parla di piccoli bonus ma può risultare troppo vincolante per operazioni di più ampio respiro.
Questa barriera cade di fronte alle erogazioni effettuate per uno dei titoli di “welfare” previsti dal legislatore, tra cui:
L’erogazione di beni o servizi per questi titoli e fini diviene inoltre interamente deducibile per il datore, sfuggendo ai diversi limiti previsti, se inserita come obbligo in contratti collettivi o regolamenti aziendali vincolanti.
I beni o servizi erogati a titolo di welfare, per usufruire dei benefici previsti dalla legge, devono essere messi a disposizione della generalità dei lavoratori o almeno di loro categorie. Non è invece necessario che tutti, pur avendone la possibilità, li utilizzino.
La normativa, agevolando le erogazioni di beni o servizi effettuate dal datore, sembra limitare gli effetti ai casi in cui i dipendenti ricevano beni o servizi direttamente prodotti o forniti dall’azienda.
Per evitare questa restrizione, il legislatore ha previsto espressamente che le erogazioni possono avvenire anche attraverso c.d. “voucher” in formato cartaceo o elettronico, nominativi, utilizzabili solo dal dipendente e non cedibili.
I voucher permetteranno l’acquisto di beni o servizi presso i fornitori convenzionati, con possibilità di mettere a disposizione del dipendente una somma e lasciargli la scelta di come suddividerla tra i vari servizi di “welfare” convenzionati.
Normalmente i voucher vengono acquistati presso circuiti nazionali convenzionati con imprese operanti sull’intero territorio Nazionale, globale o loro franchising, compensate a percentuale sull’importo corrisposto dal datore al dipendente.
Questa non è l’unica soluzione possibile.
Nulla vieta, innanzitutto, una convenzione diretta tra due privati, che però rischia di essere troppo limitante per i dipendenti e onerosa, dal punto di vista organizzativo, per i soggetti coinvolti.
Una soluzione mediana e che può portare enormi benefici per le aziende coinvolte è la creazione di circuiti locali o associativi. Questi permettono ai lavoratori un’ampia scelta di servizi, ai datori la divisione delle spese gestionali e, soprattutto, il vantaggio di incentivare il riutilizzo delle somme erogate all’interno del gruppo di imprese. Una spesa correlata al rapporto di lavoro subordinato viene quindi trasformata in un mezzo pubblicitario e d’incremento del volume d’affari per tutti i partecipanti.