Nella moderna realtà economica, accade normalmente che un imprenditore riceva servizi in modo continuativo, presso i propri locali aziendali e con modalità simili a quelle di un normale rapporto di lavoro subordinato.
Per un esempio immediato basti pensare ai servizi di pulizia, per i quali è possibile avvalersi di propri dipendenti o stipulare un appalto di servizi con un’impresa esterna. Altri casi tipici possono riguardare la gestione della contabilità, oppure la manutenzione di macchinari e impianti.
Nel diritto del lavoro, ancora più che in altri ambiti, la sostanza prevale sulla forma.
Un titolare di partita IVA che operi per un’altra realtà imprenditoriale con le modalità tipiche del lavoro dipendente (come presenza stabile presso l’azienda altrui, rispetto di un orario di lavoro, oppure di ordini frequenti e minuziosi da parte dell’imprenditore “cliente”), potrebbe agire per il riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato, con tutte le conseguenze su differenze retributive e altri oneri, per esempio previdenziali.
Il riconoscimento della subordinazione non è ostacolato dalla presenza di un contratto scritto di lavoro autonomo. La disciplina del lavoro subordinato è infatti normalmente inderogabile perché prevista “a protezione” di un lavoratore visto come soggetto debole, che non viene lasciato libero di rinunciare preventivamente ai propri diritti.
Il problema è reso ancora più complesso dalla presenza, accanto al lavoratore, degli enti previdenziali e assistenziali. Un rapporto di lavoro formalmente autonomo ma, di fatto, dipendente, lede il loro diritto a ricevere i contributi previsti per il lavoro subordinato: di conseguenza, la riqualificazione potrebbe avvenire anche a seguito di controlli ispettivi e in assenza di controversie con i lavoratori.
I pericoli non scompaiono nemmeno quando, invece del singolo lavoratore autonomo, ci si rivolge a imprese strutturate e dotate di proprio personale dipendente. Se nei fatti, in questo caso, l’impresa “cliente” opera come vero e proprio datore di lavoro per i dipendenti della “fornitrice”, si arriva a un rischio diverso: quello della somministrazione illecita di manodopera.
È necessario, a questo punto, introdurre brevemente il concetto di “somministrazione di lavoro“.
Un imprenditore può, alternativamente all’assunzione diretta di un lavoratore, rivolgersi a un’agenzia di somministrazione. L’agenzia metterà a disposizione dell’utilizzatore uno o più dipendenti, a tempo determinato o indeterminato, dietro pagamento di un prezzo che tenga conto della retribuzione del lavoratore, degli oneri correlati al rapporto di lavoro e del compenso dell’agenzia.
Si arriva quindi a uno sdoppiamento tra:
Il rapporto di somministrazione è lecito (insieme agli altri requisiti, per i quali è necessario riferirsi anche al contratto collettivo applicato) se stipulato con un’agenzia di somministrazione autorizzata.
L’ordinamento regolamenta rigidamente la somministrazione di manodopera per evitare casi di sostanziale caporalato, con presenza di soggetti privati che
Un rapporto di somministrazione con soggetti non autorizzati risulta illecito e sanzionato rigorosamente anche per l’utilizzatore, con sanzione amministrativa di € 50,00 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di occupazione. E’ poi prevista un’ammenda di ulteriori € 20,00 nel caso di somministrazione “fraudolenta” (posta in essere con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicate al lavoratore).
Il problema è che, come anticipato, i confini spesso non sono chiari. Due imprenditori possono porre in essere un rapporto commerciale genuino per appalto di servizi svolti in modo continuativo, presso l’azienda del cliente e rispettando le sue necessarie indicazioni, con la presenza di dipendenti del fornitore. Ancora una volta, l’esempio più semplice può essere individuato nei servizi di pulizia, ma le zone grigie sono potenzialmente infinite e in progressivo ampliamento con l’evoluzione economica e tecnologica.
La legge (D.Lgs 276/2003) distingue l’appalto in base all’organizzazione dei mezzi e all’assunzione del rischio d’impresa da parte dell’appaltatore. Sono, evidentemente, criteri interpretabili.
Nemmeno le indicazioni di prassi e giurisprudenza sono un porto sicuro, considerando che gli orientamenti possono cambiare. Un rapporto può essere giudicato illecito anche quando abbia rispettato l’interpretazione prevalente fino a quel momento.
Sarebbe quindi impossibile precisare, a priori, un confine “sicuro” tra attività lecita e illecita. Un simile stato di incertezza nei rapporti commerciali
Il legislatore, per consentire un margine di sicurezza agli operatori economici e con l’obiettivo di “ridurre il contenzioso in materia di lavoro” (art. 75, d.lgs. 276/2003), ha previsto l’istituto della “certificazione” dei contratti in materia di lavoro.
Rivolgendosi alle “commissioni di certificazione” istituite presso uno degli organi abilitati dalla normativa (tra cui enti bilaterali, ispettorato territoriale del lavoro, università pubbliche e private, consigli provinciali dei consulenti del lavoro), è possibile ottenere una verifica preliminare sul contratto, coinvolgendo anche le autorità pubbliche interessate (autorità previdenziali e assistenziali).
Le autorità possono presentare osservazioni e la stessa commissione di certificazione può fornire assistenza e consulenza alle parti.
Se la commissione ritiene di poter certificare il rapporto, gli effetti della certificazione rimarranno fermi sia nei confronti delle parti che dei terzi.
Anche in questo caso però non si tratta di una barriera invalicabile. Gli effetti della certificazione possono cadere, tuttavia
Nonostante i suoi limiti, la certificazione rimane un’iniziativa consigliabile tutte le volte in cui possa essere incerta la qualificazione di un rapporto di lavoro, considerando il costo ridotto e la rapidità del procedimento (30 giorni).
Soprattutto se richiesta prima dell’inizio del rapporto di lavoro, permette inoltre di avviare un dialogo con le istituzioni che potrebbe portare a soluzioni condivise con semplici accorgimenti, evitando uno scontro frontale al momento dell’accesso ispettivo.
La portata protettiva della certificazione risulta comunque così forte che l’ispettorato del lavoro, con nota n. 3861 del 19 aprile 2019, ha lamentato il suo utilizzo da parte di datori
L’ispettorato ha quindi redatto un elenco di possibili problemi formali della certificazione, che gli ispettori dovrebbero tenere presente per rimuovere, all’occorrenza, gli effetti di una certificazione che ostacoli la verifica.
La nota n. 3861 diventa, allo stesso tempo, estremamente utile per gli operatori economici che, nel certificare rapporti genuini, vogliano blindare la certificazione da censure formali. Elenchiamo, quindi, i punti fondamentali segnalati dall’ispettorato ed ai quali porre attenzione
Le commissioni di certificazione possono essere istituite anche presso enti bilaterali. Tali enti, proprio in quanto espressione sia dei datori che dei lavoratori, avrebbero la funzione di evitare abusi da parte del solo datore di lavoro.
L’ispettorato lamenta che alcuni enti bilaterali, scollegati dai principali sindacati e operanti per un numero estremamente limitato di datori, non sarebbero rappresentativi e perderebbero questa funzione. Non potrebbero, quindi, portare a una valida certificazione.
Senza discutere sull’opinione dell’ispettorato, è comunque evidente che l’efficacia della certificazione, anche in sede di contenzioso, risulterà tanto più solida quanto più il controllo possa dirsi “ufficiale” (ad esempio, utilizzando la commissione di certificazione istituita presso le sedi dell’ispettorato).
Andrà verificato che l’istanza di certificazione presenti tutti i requisiti necessari alla certificazione.
L’ispettorato richiama espressamente la necessità che l’istanza sia sottoscritta da entrambe le parti.
Inoltre, deve contenere tutti gli elementi utili a consentire una valutazione completa da parte della commissione. L’ispettorato ritiene che vadano citati eventuali precedenti ispettivi.
La procedura prevede che l’inizio del procedimento vada comunicato alla sede territoriale dell’ispettorato. Questa la inoltrerà alle autorità pubbliche interessate, che a loro volta potranno presentare osservazioni. La nota n. 3861 precisa che l’inoltro andrebbe fatto all’ispettorato del luogo dove si svolgerà la prestazione, se diverso da quello della sede legale dell’impresa.
La certificazione raggiunge la massima utilità se richiesta prima dell’inizio del rapporto di lavoro, quando siano escluse possibili sanzioni. In caso contrario potrebbe risultare, all’opposto, un’autodenuncia di situazioni che lo stesso datore di lavoro ritiene dubbie.
L’ispettorato, in ogni caso, ritiene che la certificazione non escluda sanzioni e recupero contributivo per il periodo precedente al suo intervento.
L’ispettorato ritiene che la certificazione non avrebbe effetto di fronte a eventuali condotte con rilievo penale, come la somministrazione “fraudolenta”.
La valutazione non appare condivisibile.
In ogni caso, sarebbe necessario attendere quantomeno una condanna definitiva: non appare coerente con i principi della normativa che la certificazione possa cadere di fronte a una sola “ipotesi” di reato formulata dagli organi ispettivi.